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mercoledì 11 agosto 2010

L'Empatia




E se qualcuno venisse verso di noi con alcuni tratti fisici particolari o con un’espressione  particolare dicendoci: “Io sento gioia”, noi immediatamente capiremmo che cosa sta vivendo?  
Il vissuto dell’empatia è un vissuto che ci pone in relazione con gli altri, ma non significa identificazione nell’altro, detta unipatia. Ciò che è individuale si coglie proprio attraverso il sentire, ma il sentire nel senso che io riesco a capire che l’altro è simile a me, come me, ma diverso da me, pur nella comunanza di un rapporto. Carl Rogers diede all’empatia un ruolo centrale nel suo impianto teorico. Nella sua definizione riemerge il concetto di immedesimazione non fusionale:
“ …lo stato di empatia, dell’essere empatico, è il recepire lo schema di riferimento interiore di un altro con accuratezza e con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se una sola fosse la persona - ma senza mai perdere di vista questa condizione del  come se. Significa perciò sentire la ferita o il piacere di un altro come lui lo sente, e di percepirne le cause come lui le percepisce, ma senza mai dimenticarsi che è come se io fossi ferito o provassi piacere e così via. Se questa qualità di come se manca, allora lo stato è quello dell’identificazione”.
Per Rogers l’empatia è il fattore più importante nell’ingenerare un cambiamento nel paziente, e prepara, per usare le sue parole, il successo futuro. La competenza empatica non è un’operazione di tipo cognitivo e quindi non può essere acquisita mediante un apprendimento teorico ma attraverso l’esperienza formativa, professionale e di vita quotidiana. Anche Karl Jaspers operò una distinzione tra comprensione razionale e comprensione empatica, che non è correlabile alle proprie capacità intellettuali o a titoli accademici. L’esperto dunque non è necessariamente una persona empatica. L’essere empatici è qualcosa di  più complesso che richiama aspetti psicologici, spirituali e biologici…che riguarda  il tempo opportuno, la sincronicità nella quale si incontrano la persona e l'operatore che lo aiuta nella sua capacità di coglierne il linguaggio metaforico e simbolico, ed entrare in risonanza con ciò che esprime l’altro.
Va anche detto che empatia, non significa “simpatia”, che riveste sicuramente un ruolo importante nelle relazioni umane e può esprimersi nel riconoscimento del trauma o dell’emozione provata dal destinatario, ma non tenta in alcun modo di raggiungere un vero insight della natura o della qualità di quella esperienza.
L’empatia a differenza della simpatia riguarda la comprensione del punto di vista individuale e unico di chi ascoltiamo, che rende possibile di comprendere la sua struttura interna di riferimento. Anche se non si può certo ridurre ad una serie di atteggiamenti da imparare e circoscrivere in un elenco, i seguenti punti, offrono un ventaglio di spunti per avvicinarsi al tipo di sensibilità richiesta nel setting terapeutico. Empatia è poter…
- mostrare interesse per l'altro e per le sue esperienze, comprendendo e usando il suo linguaggio;
-   avere la capacità di stabilire un rapporto emozionale mediante l’ascolto attivo, con una opportuna capacità di immedesimazione senza farsi sommergere emotivamente dai suoi problemi;
-   far sentire chi abbiamo di fronte valorizzato e degno, fiducioso e motivato;
-   sentire l’altro e percepirne la dimensione affettiva senza giudizio, con amore e cura.
Se si instaura una relazione calda, affettuosa ed empatica, la persona aiutata si sentirà rispettata e protetta, sino a “permettersi” di esprimere taluni aspetti del suo vissuto negati o rimossi, che costituiscono quindi i nodi delle crisi. Nella visione di Rogers insieme all’empatia, sono altre due le caratteristiche da cui non si può in alcun modo prescindere, per una relazione d’aiuto: congruenza ed accettazione positiva incondizionata. Ciò significa che se vogliamo aiutare qualcuno è necessario guadagnarsi la sua fiducia, avere profondamente rispetto per la sua persona, e di valorizzarlo per quello che “è” come “essere” , cioè farlo sentire in ogni circostanza “una persona che ha valore”.
Quest’ultimo elemento è correlato ad una profonda accettazione dell’altro, in modo “non condizionato” dalle nostre aspettative, sospendendo qualsiasi forma di giudizio o pregiudizio nei suoi confronti, altrimenti la nostra capacità di aiutarlo è compromessa. Ora, questo non è sempre umanamente possibile, ma è bene avere la consapevolezza che è l’obiettivo a cui tendere se vogliamo essere davvero di aiuto agli altri.
Come è possibile riuscire a non essere giudicanti all’interno di un setting terapeutico? La prima cosa è sforzarsi di immaginare il mondo quale lo vede l’altra persona. E’ un mondo caratterizzato da valori, atteggiamenti e convinzioni che non coincidono necessariamente con i nostri. Entrare in questo mondo, può rivelarsi difficile, e giudizi su atteggiamenti e valori potrebbero essere automatici, ma è necessario saperli mettere comunque da parte, in modo da lasciare all’altra persona tutto lo spazio che le serve per esprimere i suoi vissuti emotivi di “segno negativo”. E allo stesso tempo è importante essere “congruenti”, ovvero, intraprendere una relazione d’aiuto non significa indossare i panni di qualcuno che non si è, assumere un ruolo salvifico o travestirci di un’identità che non è la nostra. Al contrario, occorre essere autenticamente noi stessi (congruenti), affinché l’altro si possa fidare di noi.

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